Verso una psicologia del non-finito… e oltre!

Da qualche tempo a questa parte ci sta girando per la testa un’idea. Una di quelle idee che ti ritrovi sempre tra i piedi, anche se non lo vorresti: quando lavori ma anche quando vai a fare la spesa al supermercato o quando accogli in casa il gatto del vicino senza sapere bene il perché lo fai. Ho imparato a prendere molto sul serio queste idee perché nella mia vita si sono spesso rivelate importanti: se ci sono, dilagano e sono così trasversali, vorranno pur dire qualcosa!

Ma partiamo da qualcosa che apparentemente non c’entra nulla (ma che in realtà, come in tutte le buone storie, c’entra parecchio)… Partiamo da Michelangelo Buonarroti!
L’immagine sopra è un tipico esempio di sculture non-finite, tipiche dell’opera di Michelangelo. Al di là delle varie interpretazioni che sono state date a questa non-finitezza (che per molte opere è volontaria, si noti bene!) quello che ci colpisce è l’idea geniale del creare un contrasto tra parti finite e parti in cui la forma deve ancora liberarsi dalla pietra che la contiene. Lo spettatore, davanti a questo non-finito mette in moto la sua percezione e la sua capacità interpretativa: è cioè libero, e anzi è invitato dalla statua a completare in modo autonomo le forme “mancanti”, a colmare le lacune, estrapolando lui stesso dalla pietra le forme che più preferisce…

Bene, lasciamo per ora Michelangelo e torniamo alla nostra idea persistente: l’idea di questi ultimi mesi ha a che vedere con i confini e con la nostra percezione del mondo come un posto, fisico ma anche e soprattutto concettuale, delineato da confini rigidi. Confini che identificano gli oggetti, confini che distinguono i concetti e le idee, confini che dividono le persone e segnano le differenze. La nostra percezione stessa, o per meglio dire l’insieme di idee che abbiamo sulla nostra percezione, si basa su differenze, limiti e confini: la psicologia della Gestalt ci ha insegnato molto sulle regole di percezione e di organizzazione della nostra esperienza del mondo, e penso che quel modo di vedere le cose sia in effetti molto utile. Ci aiuta a costruire il mondo come un insieme ordinato e ben delimitato. Ma siamo davvero sicuri che questo modo di vedere le cose, per quanto sensato, sia l’unico possibile? E siamo sicuri che sia soprattutto utile in questo periodo storico e culturale?

Che cosa succederebbe se cominciassimo a vedere il mondo, e le sue differenze, in modo sfumato e continuo anziché nitido e discontinuo? Che cosa accadrebbe se al solito modo di vedere le cose affiancassimo anche una visione in cui i confini non esistono, ma esistono solo passaggi graduali e sfumati, in cui il senso stesso dello stacco tra una cosa e l’altra si verrebbe a perdere? Di questo si è già in parte occupato Bart Kosko, con la sua rivoluzionaria idea del “Fuzzy pensiero” (se ne volete sapere di più provate a leggere questo articolo). Una mela resta sempre una mela anche se ne mangiamo un morso? E dopo che l’abbiamo mangiata tutta è sempre una mela? In quale punto esatto finisce il nostro polso e inizia il nostro braccio? Dove collochiamo il confine tra amicizia e amore? E tra amore coniugale e relazione fraterna? Traslando e ampliano l’idea dell’impossibilità di definire alcuni confini (che esistono nel linguaggio, ma che non sono riscontrabili di fatto nella realtà!), l’idea di fondo è: può oggi una visione della psicologia centrata su categorie rigide, una “psicologia del finito”, rendere ragione dei fenomeni sociali e relazionali? E se anche lo facesse, tutto ciò potrebbe davvero aiutarci a vivere meglio?

Nella nostra esperienza clinica e nella vita quotidiana stiamo sperimentando sempre più spesso che sarebbe molto più utile avere a disposizione una visione del mondo “non finita”, avere una teoria elastica e sfumata che parli di cose “non finite”, anziché finite e definite, un modo di approcciarci agli altri e al mondo che si basi su sfumature di continuità e non su scatti di discontinuità: amici o nemici? Bello o brutto? Amore o amicizia? Coppia o separati? Sani o malati? Mio o tuo? Dentro o fuori? Insomma, pensiamo che ci servirebbe una “Psicologia del non-finito”, che crei delle parole e delle idee per aiutarci a vivere negli spazi che dividono i concetti. Ma non solo, ci serve un modo di pensare che ci permetta di creare cornici sempre più grandi e sfumate per poter andare oltre la logica della scelta fra due alternative, oltre le etichette che regolano il nostro modo di pensare alle relazioni… Poiché proprio in questi spazi inesplorati, in queste terre magiche e affascinanti,  si trovano spesso le soluzioni più creative ai nostri problemi.

Ecco allora che il “non-finito” di Michelangelo è in qualche modo collegato a queste idee: quando definiamo finita un’opera? Quante potenzialità si nascondono e si attivano nello spazio, o meglio nella tensione, che si crea tra i concetti di finito e non-finito? E come si potrebbe ragionare a prescindere dall’opposizione di questi due concetti, pensandoli invece in un continuum che li trascenda, magari coinvolgendo anche lo spettatore stesso? E ancora, tornando su un piano più concreto: come si potrebbero declinare queste idee nella psicoterapia? Come ci potrebbero aiutare nella vita quotidiana?

Torneremo in altri post ad esplorare questo argomento, con esempi concreti tratti dalla clinica e dalla vita quotidiana… Quindi non abbiamo ancora finito di parlare di “non-finito”!